di Francesco Turturro* e Luca Labianca*
Le Malattie Neuromuscolari interessano, a volte fin dall’inizio, organi o apparati diversi, con manifestazioni cliniche respiratorie, cardiache, epatiche e muscolo-scheletriche. La presa in carico del paziente è quindi sempre multidisciplinare e richiede l’integrazione di interventi terapeutici altamente specialistici. Esse presentano, nella maggior parte, un andamento cronico progressivo; per alcune sono oggi disponibili terapie che modificano la storia naturale, per altre è possibile solo il trattamento sintomatico.
Esse possono essere congenite o acquisite e, secondo l’interessamento primitivo, si distinguono in:
• miopatie, quali le distrofie muscolari di Duchenne (DMD), di Becker e Ullrich, le miopatie congenite, le miopatie metaboliche e le miositi
• malattie della giunzione neuromuscolare, quali la Miastenia gravis, la sindrome di Lambert-Eaton, la distrofia miotonica di Steinert e la miotonia congenita di Thomsen
• le neuropatie periferiche, quali le neuropatie ereditarie sensitivi motorie, come la malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT) e altre mononeuropatie e polineuropatie
• malattie del II motoneurone, quali la Atrofia Muscolare Spinale (SMA) nei suoi diversi tipi.
La scoliosi rappresenta il problema di maggiore rilievo dal punto di vista ortopedico e spesso uno degli aspetti più significativi del quadro clinico generale. Infatti tutti coloro che si occupano di malattie neuromuscolari si sono trovati ad affrontare il difficile e spesso doloroso problema dell’assetto posturale di questi pazienti che, in molti casi, sono costretti a mantenere una posizione seduta permanente.
La scoliosi è una deformità complessa, costituita da una flessione laterale della colonna vertebrale e da una rotazione di entità variabile delle singole vertebre. Questa rotazione determina, nella parte toracica e dalla parte della convessità della curva, quel sollevamento delle coste che forma il cosiddetto gibbo.
Nelle Malattie Neuromuscolari, la scoliosi mostra una prevalenza decisamente elevata, oscillando, a seconda della patologia, dal 30% al 100% delle persone affette e, spesso, è caratterizzata da spiccata tendenza all’aggravamento, sino a quadri gravissimi che rendono impossibile la posizione seduta e difficoltose le pratiche di assistenza.
Quadro clinico
Lo sviluppo di questa deformità̀ vertebrale è conseguenza diretta dell’alterazione della forza e dell’equilibrio del tronco, insita in queste malattie.
La curva scoliotica è solitamente unica, a “C”, si localizza a livello toraco-lombare e nella sua evoluzione finisce con il coinvolgere il sacro, determinando un’obliquità del bacino di entità variabile, sino ai gradi estremi in cui si realizza un contatto fra le coste e il bacino dal lato della concavità.
Questa progressione della curva scoliotica, che può proseguire anche dopo il raggiungimento della maturità scheletrica, provoca:
- progressiva difficoltà a mantenere una posizione seduta confortevole (a causa dell’obliquità del bacino che determina una riduzione della zona di appoggio dei glutei, predisponendo il paziente all’insorgenza di ulcerazioni e piaghe da decubito)
- ulteriore riduzione della autonomia degli arti superiori, che vengono usati per mantenere l’equilibrio del tronco
- dolori dovuti al contatto delle coste con la cresta iliaca, dal lato della concavità della curva
- dolori vertebrali
- difficoltà nell’assistenza e nella cura della persona
- peggioramento della funzione respiratoria.
Storia naturale e trattamento
Esistono differenze di comportamento della scoliosi nelle diverse malattie neuromuscolari.
Nella CMT la scoliosi è presente nel 30 – 40% dei soggetti affetti, con caratteristiche di insorgenza e evolutività molto simili a quelle della cosiddetta scoliosi idiopatica dell’adolescente (cioè la forma non legata ad altre malattie e che interessa circa il 2-3% della popolazione generale).
Di conseguenza il trattamento segue gli stessi principi:
- Osservazione clinica fino ai 15°-20° di deviazione laterale
- Corsetto tra i 20° e i 45°
- Chirurgia oltre i 45°
La scelta del trattamento è in funzione non solo dei gradi della curva, ma anche e soprattutto dell’età del paziente, soprattutto in termini di maturità scheletrica (cioè di quanto gli rimane da crescere). Ad esempio, schematizzando, una ragazza di 18 anni, anche se presenta una curva di 35°, non metterà né il corsetto né avrà necessità di un intervento chirurgico, poiché le donne a quell’età solitamente hanno già terminato la crescita scheletrica della colonna (e una semplice radiografia ce lo potrà confermare); invece una ragazzina di 10 anni, in età prepubere, con una curva di 20° dovrà certamente essere trattata con un corsetto e essere seguita con molta attenzione al fine di evitare un intervento chirurgico.
Il corsetto nella CMT (così come nelle scoliosi idiopatiche dell’adolescenza) ha dimostrato efficacia nel controllare il peggioramento della curva, se portato per almeno 16 ore al giorno, e per mantenerne l’entità sotto il fatidico livello di 45°-50°, che consente ragionevolmente di evitare l’intervento chirurgico.
Nelle altre scoliosi neuromuscolari, invece, la storia naturale è spesso molto diversa. Innanzitutto la prevalenza varia dal 50 – 70% della SMA tipo III al 80-90% della distrofia muscolare di Duchenne, al 100% della SMA tipo II.
Nella SMA II sappiamo con certezza che tutti i pazienti svilupperanno una scoliosi e che molto spesso ciò avviene prima dei 5 anni di età. Nella SMA III la scoliosi insorge più tardivamente e si è osservato che quanto più è tardiva la perdita della deambulazione, tanto meno grave e meno evolutiva è la scoliosi.
Nella distrofia muscolare di Duchenne, la scoliosi insorge sempre dopo la cessazione della capacità di camminare.
Queste osservazioni hanno portato ad attribuire alla deambulazione una funzione “protettiva” nei confronti della scoliosi, ma non si può escludere che la cessazione precoce della deambulazione e l’insorgenza altrettanto precoce della scoliosi siano entrambe manifestazioni di una maggiore gravità della malattia. È comunque importante segnalare come la storia naturale della DMD sia stata profondamente modificata dalla terapia cortisonica: parallelamente al miglioramento delle prestazioni motorie e al prolungamento della capacità di camminare si è osservata una riduzione della frequenza della scoliosi, che insorge anche molto più tardivamente e sembra dotata di una minore tendenza all’aggravamento.
A differenza di quanto avviene nella CMT, la letteratura scientifica internazionale è concorde nel ritenere che, nella maggior parte delle malattie neuromuscolari, il corsetto non sia in grado di impedire l’aggravamento della scoliosi, rivelandosi utile solo per conferire equilibrio nella posizione seduta, e che l’intervento chirurgico sia oggi l’unico trattamento efficace di fronte a curve evolute oltre un certo grado.
Naturalmente, per l’impegno che richiede questo genere di intervento, la scelta del momento ideale per eseguirlo è molto importante.
Bisogna infatti intervenire prima che la curva divenga troppo grave (più è grave e maggiori sono i rischi connessi all’intervento), ma anche non troppo presto per non bloccare la crescita staturale, ed infine bisogna tener conto delle condizioni generali che in questi piccoli pazienti possono talvolta essere compromesse al punto da esporli a ulteriori gravi rischi collaterali.
Ancora una volta il trattamento deve essere multidisciplinare e concordato, con il coinvolgimento di un team affiatato di professionisti tra cui anestesista, ortopedico, cardiologo, riabilitatore, neuropsichiatra, pneumologo, senza dimenticare la famiglia che deve essere partecipe e presente, informata e di sostegno.
Trattamento chirurgico della scoliosi
Il trattamento chirurgico si pone principalmente 3 obiettivi:
- Correggere l’obliquità̀ del bacino.
- Dare alla colonna il migliore assetto possibile, sul piano frontale e su quello sagittale.
- Correggere le deformità̀ della cassa toracica.
L’intervento è un trattamento non privo di rischi, che possono presentarsi sia durante la pratica chirurgica che durante il decorso postoperatorio.
Le complicanze postoperatorie possono essere sia precoci, se si manifestano durante il decorso postoperatorio ospedaliero, sia tardive se si manifestano dopo la dimissione del paziente (complicanze infettive possono ricorrere anche ad anni dal primo intervento).
Le cosiddette complicanze possono andare da un banale ritardo di cicatrizzazione della ferita a serie complicanze mediche o chirurgiche, intraoperatorie o post-operatorie.
Per tale ragione gli anestesisti che assistono questi pazienti sono particolarmente specializzati per la gestione durante l’intervento di questo tipo di patologie che possono presentare problematiche particolari (quali l’ipertermia maligna e il maggiore sanguinamento). Inoltre viene sempre predisposto un periodo minimo di 24-48h nel reparto di terapia intensiva post-operatoria in modo da avere il massimo livello di assistenza possibile nelle prime ore successive all’intervento.
La tecnica chirurgica del trattamento della scoliosi, ha subito nel corso del tempo una costante evoluzione, partendo dall'artrodesi semplice fino ad arrivare ai moderni strumentari con barre, viti ed uncini.
Ma cosa è l’artrodesi? Per artrodesi si intende il processo biologico che porta a fare unire le vertebre, stimolato dall’intervento del chirurgo, in modo da mantenere la correzione ottenuta in via definitiva. Ogni vertebra infatti durante l’intervento viene cruentata e tagliata in alcuni punti specifici in modo che sanguini come un osso fratturato. Ogni vertebra, essendo così a contatto sopra e sotto con altre vertebre che hanno subito lo stesso trattamento, reagisce come l’osso quando ha una frattura e forma nuovo osso attaccandosi al livello superiore ed inferiore. Questo alla fine costituisce un blocco unico che consente alla colonna di mantenere la correzione.
Mentre nel passato si usavano corsetti di gesso per mantenere questa posizione per mesi e mesi dopo l’intervento, oggi la tecnologia ci ha messo a disposizione strumentari in grado di dare correzioni di grado elevato e così stabili da consentire di evitare l’impiego di gessi o corsetti post-operatori. Barre, uncini e viti mantengono la correzione fino al completamento biologico della artrodesi.
Dal giorno dell’intervento al ritorno a casa
Il giorno dell’intervento è il più lungo per i genitori ed il più breve per il piccolo paziente. Questo infatti entra in sala operatoria e viene addormentato. Si risveglierà al termine dell’intervento oppure il giorno dopo nel suo letto in terapia intensiva.
L’intervento di scoliosi è un evento impegnativo emotivamente e fisicamente. Per fortuna oggi la gestione post-operatoria, grazie ai nuovi strumentari, è molto più semplice.
Dopo il breve soggiorno in terapia intensiva, se non ci sono complicazioni, il paziente ritorna nella stanza del reparto di ortopedia pediatrica e già dopo 3-4 giorni dall’intervento è in grado di mantenere la posizione che più gli è comoda. Se non vi sono state complicazioni può anche riprendere normalmente l’uso della carrozzina entro i 7-10 giorni. Il ritorno a casa è funzione delle condizioni specifiche per ogni diversa patologia neuromuscolare e per ogni paziente. Di solito avviene entro le due settimane dall’intervento (che è anche il momento della rimozione punti). Successivamente si faranno controlli a intervalli regolari a un mese, due mesi, sei mesi e un anno dall’intervento.
Una domanda ricorrente da parte del paziente e dei suoi familiari riguarda le limitazioni di movimento provocate dall’intervento.
Ebbene, poiché il rachide cervicale non è interessato dalla chirurgia, il movimento del capo rimane invariato; riacquistata la posizione seduta, nel giro di pochi giorni, il paziente si abitua al nuovo assetto del tronco e riprende il controllo della testa. La flessione anteriore del tronco subisce una limitazione modesta, perché la maggior parte di questo movimento avviene a livello delle anche, che non sono interessate dall’intervento. Sono invece abolite sia la flessione laterale che la rotazione del busto.
È lo scotto da pagare per ottenere la correzione della scoliosi, un buon equilibrio del bacino, un aumento di altezza e una posizione seduta corretta.
Le scoliosi ad esordio precoce
Il trattamento delle scoliosi ad esordio precoce pone problemi con i quali i chirurghi vertebrali si confrontano da sempre.
Rientrano in questo gruppo le scoliosi che si osservano in alcune malattie neuromuscolari, quali ad esempio la SMA tipo II ed alcune miopatie congenite.
L’esordio precoce si accompagna in genere ad una più spiccata tendenza all’aggravamento.
Per questo si può rendere necessario un intervento chirurgico precoce.
Difatti attendere l’età ritenuta più idonea, che in genere si attesta oltre i 10 – 11 anni, quando la maggior parte della crescita del tronco è già avvenuta, potrebbe significare un peggioramento della curva tale da rendere l’intervento più rischioso e meno efficace nel ridurre la grave deformità. D’altra parte, effettuare in età precoce l’intervento definitivo (artrodesi vertebrale) comporta svantaggi importanti.
L’artrodesi vertebrale posteriore prima dei 10 anni espone al rischio del cosiddetto crankshaft phenomenon: il riprodursi della deformità dovuto al grande potenziale residuo di crescita dei corpi vertebrali. Per evitarlo, una volta che si sia deciso un intervento definitivo precoce, occorrerebbe un doppio intervento sulla colonna, per via anteriore e per via posteriore, ma la doppia procedura chirurgica comporterebbe un aumento dei rischi operatori, soprattutto in pazienti che hanno una situazione respiratoria precaria o compromessa. Inoltre, arrestando così precocemente la crescita del tronco, risulterebbero alterate le armoniche proporzioni di tronco e arti.
Gli impianti allungabili per gli interventi precoci
Da queste osservazioni deriva l’idea di eseguire un intervento che consenta di correggere la scoliosi e “accompagnare” la crescita del tronco fino alla età idonea per il trattamento definitivo; per realizzare questo obiettivo occorre impiantare barre che possano essere allungate periodicamente, ogni 6-8 mesi, con un intervento decisamente più semplice e a minor impatto per il paziente, in inglese chiamate growing (che crescono) rods (barre).
Il VEPTR (acronimo inglese per “Protesi costale in titanio espandibile verticalmente”) rientra in questo tipo di strumentari, da cui si distingue perché almeno una delle due estremità è agganciata ad una costola. Anche in questo caso si tratta di un sistema allungabile che consente di seguire la crescita del tronco e di dilazionare l’intervento definitivo.
Purtroppo questo tipo di trattamento è gravato da una elevata percentuale di complicanze, soprattutto infezioni superficiali o profonde, legate alle ripetute procedure chirurgiche.
Negli ultimi anni si sta diffondendo un nuovo strumentario chiamato MAGEC. Queste barre sono anch’ esse allungabili una volta impiantate, ma l’allungamento avviene tramite un macchinario che agisce dall’esterno su un meccanismo magnetico contenuto nelle barre.
Questo strumento una volta impiantato non necessita di altri interventi per l’allungamento che avviene in ambulatorio in pochi minuti per mezzo del suddetto meccanismo.
Questo consente di evitare le ripetute procedure chirurgiche e i ripetuti ricoveri. Ancora non ci sono casistiche numerose e con lunghi follow up che possano consentirci di valutare l’efficacia di questo trattamento, ma sicuramente si sono abbattute le complicanze dovute ai successivi interventi e i traumi psicologici derivanti dalle ripetute ospedalizzazioni.
Il compito di tutti i sistemi allungabili è di accompagnare il paziente nella sua crescita controllando la deformità, per poi essere sostituiti da una strumentazione definitiva, tramite un nuovo intervento, una volta che il chirurgo reputi arrivato il momento giusto.
*UOC Ortopedia e Traumatologia Azienda Ospedaliera Sant’Andrea, Facoltà di Medicina e Psicologia, Università “Sapienza”, Roma.
Testo redatto nell'ottobre 2017.
Per ulteriori dettagli o approfondimenti:
Coordinamento Commissione Medico-Scientifica UILDM, c/o Direzione Nazionale UILDM, tel. 049/8021001, commissionemedica@uildm.it.